Vista dal mare, Otranto appare ancora una fortezza, con i bastioni a picco sull’acqua, ma dietro la vuota abbondanza di mura e torrioni, un prodigio di viuzze bianche in salita, in discesa, di casette bianche, di palazzotti tufacei. In queste viuzze i fatti della storia sono rimbalzati, come pomi maturi, da un secolo all’altro e giunti fino a noi: qui le palle delle bombarde turche, scagliate cinquecento anni fa, reggono i gradini d’accesso delle case o adornano la soglia al “salone” del barbiere, all’ufficio postale, situate ai due lati dell’ingresso.
Maria Corti, L’ora di tutti, Bompiani
I primi di settembre ho soggiornato per alcuni giorni in Puglia, nel Salento ad Otranto. Ho un legame doppiamente affettivo con la Puglia, perché è la regione di origine dei miei nonni materni e del mio Amore. Della regione “conosco” la parte centro nord, ma la Penisola Salentina non l’avevo ancora visitata, sebbene mi abbia sempre incuriosito per le rinomate spiagge, per i paesaggi mozzafiato, per le città ricche di storia, di arte e di antiche tradizioni come quella di essere stata l’“area elettiva del tarantismo”. Così scriveva l’antropologo Ernesto De Martino nel suo saggio La Terra del rimorso che ha inquadrato il fenomeno storico-religioso e culturale del tarantismo che caratterizzò gran parte dell'Italia meridionale. Il fenomeno è legato al morso di un ragno, la tarantola, che produceva una sorta di “isteria”. Per liberarsi del morso velenoso si praticava una terapia basata su una musica dal ritmo sfrenato, su una danza travolgente e sui colori. Come chiarirà De Martino il morso della taranta più delle volte non era reale, piuttosto rappresentava un simbolo di “liberazione“, un pretesto per liberare le frustrazioni sociali o sessuali o dovute a condizioni familiari difficili. Non a caso ad essere "pizzicati" erano soprattutto le donne che, in una società patriarcale, molto spesso avevano un ruolo sottomesso. In quella musica e in quella danza liberatoria traevano forza, esprimevano la vitalità del corpo, non erano soggette a regole ed erano protagoniste.
Tra le città della penisola salentina, la scelta è stata Otranto denominata la “Porta d’Oriente” per la sua posizione più ad est d’Italia, per questo passaggio tra Oriente e Occidente oltre che terra di conquista (che ti conquista).
Otranto si estende ad arco sul canale omonimo. Il borgo antico è circondato da alte mura e bastioni che contengono una fitta rete di vicoli, piccole piazze, scalinate lastricate di pietra con case bianche - alcune hanno vicino ai portoni a mo’ di decorazione antiche palle di granito lanciate dalle catapulte turche -, negozietti e ristoranti caratteristici conducono alla mole del Castello Aragonese proteso verso il mare. Un castello che è stato fonte d'ispirazione del celebre romanzo di Horace Walpole Il castello di Otranto, del 1764, considerato il primo esempio di romanzo gotico. Chi è appassionato come me di Jane Austen ricorderà che è il genere preferito di una sua protagonista Catherine Morland ne L’Abbazia di Northanger. Il Castello quest’anno ospitava alcune sculture bronzee ed incisioni di Salvator Dalì oltre ad istallazioni come quella di Luigi Orione Amato, SITreale. Una fila di sedie impagliate sospese che ornavano la mole del Castello e in alcuni punti sembravano volteggiare nel cielo, con effetto molto suggestivo.
Da amante dell’arte quello che mi incuriosiva di più era vedere finalmente dal vivo il meraviglioso e misterioso mosaico pavimentale della Cattedrale romanica della Santissima Annunziata. Un tronco di Albero che si sviluppa su tutta la navata centrale e si ripete in forma più piccola nelle navate del transetto. Tra i rami come una sorta d’enciclopedia illustrata compaiono: segni zodiacali, scene bibliche e mitologiche; personaggi come Re Artù e Carlo Magno, piante e animali fantastici tra cui anche un gatto che nelle zampe di sinistra calza degli stivaletti. Secondo alcune interpretazioni sarebbe una sorta d’antenato della popolare fiaba di Charles Perrault il Gatto con gli stivali.
La Cattedrale è legata anche ad un evento tragico il massacro avvenuto nel 1480 ad opera dei turchi. Furono decapitati ottocento otrantini, le loro ossa sono conservate in sette armadi a vetro nella cappella di destra, la Cappella dei Martiri. Alla loro storia ha dato voce Maria Corti nel bel romanzo L’ora di tutti.
Molto suggestiva è stata anche la Festa della Madonna dell'Altomare protettrice dei marinai, dei pescatori e di chi va in mare. La statua ottocentesca della Madonna è collocata su un peschereccio ed è seguita da altre imbarcazioni in processione; si getta una corona d'alloro in mare per ricordare tutti quelli che vi hanno perso la vita. Questa festa è molto sentita dagli otrantini.
Oltre alla bellezza del paesaggio sia diurno che notturno, del colore del mare di un azzurro verde che vira al blu, di una spiaggia con la sabbia bianca molto fine, alla storia, all’arte, alle feste tradizionali ho avuto modo di gustare la cucina salentina povera e ricca allo stesso tempo. Povera e semplice nell’uso delle materie prime, ma ricche di sapore, di odori e di storia come il piatto che oggi propongo Ciceri e trie; da ammiratrice degli usi e tradizioni non potevo che scegliere uno dei piatti che ben rappresenta il forte legame dei pugliesi alla propria tradizione e ai prodotti del territorio.
Ciceri e trie è considerato, insieme a piatti simili del Sud, uno degli esempi di archeologia gastronomica italiana. Sembra, infatti, che Orazio nelle Satire si riferisce a questa tipologia di piatti, quando racconta che dopo aver passeggiato nel foro l’aspettava a casa “una scodella di porri, ceci e lagane”. Per i latini e i greci le lagane (laganum e làganon) equivalevano ad una sfoglia fresca ottenuta impastando acqua e farina, si potrebbe dire un’antenata della pasta sfoglia, tagliata a strisce.
Nel Salento nei secoli successi la parola lagane è stata accomunata con la parola tria che deriva dalla parola araba itrya vale a dire pasta secca o pasta fritta. Da qui l’essenza del piatto: ceci con pasta di semola di grano duro fatta a mano tagliata a strisce, una parte sono fritte in olio extra vergine di oliva, mentre il resto si cuoce come di consueto in abbondante acqua salata.
Questo piatto in particolare nella provincia di Lecce ha anche un valore “solenne”, è la principale portata che viene servita durante la festa di San Giuseppe Patriarca, dove tradizionalmente si allestiscono grandi tavolate. Nei periodi di guerra e di ristrettezza i bambini e gli adulti più poveri aspettavano con piacere questa festa per poter mangiare. Giravano per il paese con scodelle e un cucchiaio, facendo chiasso e cantando, bussavano di casa in casa per farsele riempire e mangiavano lungo i bordi delle strade. Lo scopo della festa era quello di dare da mangiare a tutti.
Come tutte le ricette tradizionali ci sono varie versioni da paese a paese da casa a casa. Questa è quella che mi hanno indicato.
Ingredienti
Per la pasta:
300 g di semola di grano duro
100 ml di acqua ca (1 bicchiere)
Per il condimento:
200 di ceci secchi
1 cipolla piccola
1 costa di sedano
2 spicchi di aglio
2 cucchiai di passata di pomodoro
2 foglie di alloro
rametto di rosmarino
olio extra vergine di oliva
peperoncino quantità a piacere
sale
Preparazione:
Il giorno prima si mettano a bagno i ceci in acqua fredda e un cucchiaino di bicarbonato. Il giorno seguente si mettano in una pentola, meglio di terracotta, ricoperti di acqua fredda, si aggiunge uno spicchio d’aglio, cipolla, sedano, foglie di alloro, rametto di rosmarino e si lascino cuocere per 2 ore circa fin quando diventano teneri.
Nel frattempo si prepara la pasta. Si versa la farina a fontana, si aggiunge un po’ per volta l’acqua, si lavora fino ad ottenere un impasto morbido ed elastico. Si lascia riposare per mezz’ora coperto, poi si stende con l’aiuto di un mattarello una sfoglia non sottile. Si taglia a strisce di 1 cm 1,5 circa e si lascia riposare.
Una parte delle strisce si frigge in olio extra vergine di oliva, si scolano per eliminare l’olio in eccesso. Il restante delle strisce si cuociono in acqua calda salata, prima di versare la pasta si aggiunge un po’ di olio per non farla attaccare. Si fa cuocere per alcuni minuti deve rimanere al dente, si scola e si conserva una parte dell’acqua di cottura.
In una padella si fa imbiondire l’aglio tagliato a pezzetti con un po’ di peperoncino, si aggiunge la passata di pomodoro si sala e si fa cuocere per alcuni minuti.
Si prende un mestolo di ceci si passano nel passaverdura, si versa la poltiglia e si lascia insaporire, si aggiungono gli altri ceci interi e parte della loro acqua di cottura si fanno cuocere per alcuni minuti.
Si aggiunge la pasta appena cotta, la pasta fritta con il suo olio di frittura e l’acqua di cottura conservata, si fa mantecare per alcuni minuti, si aggiunge il peperoncino e un filo di olio extra vergine di oliva. Si lascia riposare per alcuni minuti coperto prima di servirle.